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Premessa 

Il Governo ha emanato una serie di provvedimenti urgenti e condivisibili che impongono molteplici restrizioni che, inevitabilmente, coinvolgono  (esconvolgerannoanche i rapporti commerciali, le attività produttive, quelle lavorative e professionali.  

Pur non riguardando direttamente (almeno fino ad ora) i contratti che regolano predetti rapporti, i provvedimenti governativi incideranno, inevitabilmente, sulla capacità e possibilità delle parti di eseguire o ricevere le relative prestazioni, con conseguenti inevitabili ed ampiamente prevedibili inadempimenti contrattuali. 

Per comprendere gli effetti giuridici di quanto sopra si dovranno, quindi, analizzare alcuni principi cardine del diritto vigente in materia di inadempimento prevedendone l’applicazione anche al caso di specie. 

Coloro che in buona fede – hanno assunto particolari obbligazioni commerciali, nell’ambito del territorio nazionale e rette dalla legge italiana, e non saranno, in conseguenza dell’epidemia e delle restrizioni imposte dal Governo, in grado di adempiervipotranno invocare gli effetti sospensivi se non addirittura estintivi delle obbligazioni per impossibilità sopravvenuta (definitiva o temporanea) delle prestazioni (artt. 1256, 1463 c.c.), o la eccessiva onerosità delle stesse (art.1467c.c.). 

Detti istituti giuridici sono ampiamente disciplinati nel nostro sistema giuridico. 

Ma procediamo con ordine cercando in primo luogo di contestualizzare e di circoscrivere l’ampiezza di un argomento divenuto di stringente attualità. 

Inadempimento art. 1218 c.c. 

In primo luogo occorre specificare che  l’inadempimento contrattuale, ai sensi dell’art. 1218 c.c., è costituito dalla mancata esecuzione di una prestazione qualora sia carente, da parte, dell’obbligato, l’impegno di diligenza e di cooperazione richiesto, secondo il tipo di rapporto obbligatorio, per la realizzazione dell’interesse del creditore, ciò nel presupposto che la prestazione sia soggettivamente possibile. In buona sostanza, la difficoltà nell’adempimento non impedisce la prestazione, con conseguente liberazione del debitore, ma costituisce soltanto un ostacolo che il debitore è tenuto a superare con la dovuta diligenza. 

Al fine di esonerarsi dalle conseguenze dell’inadempimento delle obbligazioni contrattualmente assunte, il debitore deve provare che l’inadempimento è stato determinato da “causa a sé non imputabile” la quale è costituita non già da ogni fattore a lui estraneo che lo abbia posto nell’impossibilità di adempiere in modo esatto e tempestivo, bensì solamente da quei fattori che «da un canto, non siano riconducibili a difetto della diligenza che il debitore è tenuto ad osservare per porsi nelle condizioni di adempiere e, d’altro canto, siano tali che alle relative conseguenze il debitore non possa con eguale diligenza porre riparo». 

In sintesi, dunque, l’art. 1218 c.c. è strutturato in modo da porre a carico del debitore, per il solo fatto dell’inadempimento, una presunzione di colpa iuris tantum, superabile mediante la prova dello specifico inadempimento che abbia reso impossibile la prestazione o almeno la dimostrazione che, qualunque sia stata la causa dell’impossibilità, la medesima non possa essere imputabile al debitore. 

 

CAUSA DI FORZA MAGGIORE  

La clausola più invocata di questi tempi è la “forza maggiore”.  

Come noto, nell’ambito dell’ordinamento italiano, non è prevista una definizione precisa di forza maggiore, poiché non esiste alcuna norma che descriva in modo esplicito la fattispecie in esame. 

Il termine “forza maggiore” è citato in alcune norme del Codice Civile, fra le quali l’art. 1785 c.c., inerente ai limiti di responsabilità dell’albergatore in caso di deterioramento, distruzione o sottrazione., ed è individuato per sommi capi dall’art. 1467 c.c. (rubricato “contratto con prestazioni corrispettive”), il quale riconosce al debitore la facoltà di richiedere la risoluzione del contratto nel momento in cui la prestazione da lui dovuta sia diventata eccessivamente onerosa per fatti straordinari ed imprevedibili, estranei alla sua sfera d’azione. 

Nella prassi internazionale, avvenimenti “straordinari ed imprevedibili” sono definiti come cause di forza maggiore (esempi di ciò sono i terremoti, gli uragani, le guerre, le ribellioni, e senza dubbio le epidemie, ecc.). 

In linea generale il principio che viene seguito è correttamente previsto in alcune sentenze della suprema corte di Cassazione la quale ad esempio nella sentenza n. 965 della Cass. Pen., sez. V, 28 febbraio 1997, sancisce che può essere considerata come situazione appartenente alla categoria di forza maggiore solo quell’evento che impedisca la regolare esecuzione del contratto e renda, inoltre, inefficace qualsiasi azione dell’obbligato diretta ad eliminarlo. La Suprema Corte precisa, inoltre, che l’accadimento impedente non deve essere dipeso da azioni od omissioni dirette od indirette del debitore. 

Detto ciò, risulta rilevante approfondire maggiormente le due caratteristiche che un evento deve avere per essere considerato causa di forza maggiore: 

straordinarietà ed imprevedibilità. 

La Corte di Cassazione è intervenuta anche in questo ambito fornendo una precisa descrizione di entrambi i termini, nella sentenza n. 12235, Cass, sez. III, 25 maggio 2007. 

  •  Il requisito di straordinarietà, secondo la Suprema Corte, ha carattere obiettivo, nel senso che deve trattarsi di un evento anomalo, misurabile e quantificabile sulla base di elementi quali la sua intensità e dimensione. 
  •  L’imprevedibilità, invece, ha natura soggettiva, in quanto riguarda la capacità conoscitiva e la diligenza della parte contraente. La valutazione di tale caratteristica deve avvenire, però, in modo totalmente obiettivo, prendendo a modello il comportamento di una persona media, che versi nelle stesse condizioni.

È necessario, comunque, mettere in rilievo il fatto che la prevedibilità ed imprevedibilità di una circostanza così come la sua ordinarietà e straordinarietà sono elementi variabili, in quanto strettamente legati al tipo di operazione che si mira a realizzare ed al luogo in cui tale obbligazione deve essere assolta.

Nella stesura di un contratto è pertanto opportuno  inserire la clausola di forza maggiore, indicando per quali accadimenti, straordinari ed imprevedibili, si debba ritenere esclusa la responsabilità del debitore in caso di inadempimento della prestazione. 

Ove così non fosse è necessario rifarsi agli altri istituti giuridici che disciplinano l’inadempimento contrattuale. 

 

Art. 1256 c.c. impossibilità della prestazione e il “factum principis 

In materia di inadempimento contrattuale, deve rilevarsi come, ai sensi dell’art. 1256 c.c.L’obbligazione si estingue quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile. 

Se l’impossibilità è solo temporanea, il debitore finché essa perdura, non è responsabile del ritardo nell’adempimento.  

Tuttavia l’obbligazione si estingue se l’impossibilità perdura fino a quando, in relazione al titolo dell’obbligazione o alla natura dell’oggetto, il debitore non può più essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla” 

L’obbligazione si estingue quando, per causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa “impossibile”; se tale impossibilità è solo temporanea, inoltre, il debitore, nelle more della stessa, non è responsabile del ritardo nell’adempimento. 

La liberazione del debitore per sopravvenuta impossibilità della prestazione, dunque, può verificarsi – ai sensi dell’art. 1256 c.c. – solo se ed in quanto concorrano l’elemento obiettivo della impossibilità di eseguire la prestazione medesima, in sé considerata, e quello soggettivo dell’assenza di colpa da parte del debitore riguardo alla determinazione dell’evento che ha reso impossibile la prestazione. 

Tra le cause invocabili ai fini della richiamata “impossibilità della prestazione”, rientrano – per quanto qui di interesse – gli ordini o i divieti sopravvenuti dell’autorità amministrativa c.d. “factum principis”: si tratta, in concreto, di provvedimenti legislativi o amministrativi, dettati da interessi generali, che rendano impossibile la prestazione, indipendentemente dal comportamento dell’obbligato]. In sintesi, trattasi di circostanza che funge da esimente della responsabilità del debitore a prescindere dalle previsioni contrattuali in essere. 

Secondo la giurisprudenza – l’impossibilità nell’adempimento contrattuale non può essere invocata qualora il factum principis sia «ragionevolmente e facilmente prevedibile, secondo la comune diligenza, all’atto dell’assunzione dell’obbligazione» ovvero «rispetto al quale non abbia sperimentato tutte le possibilità che gli si offrivano per vincere o rimuovere la resistenza della pubblica amministrazione». 

Nell’ipotesi, invece, di impossibilità temporanea, l’art. 1256 c.c. si limita ad escludere, finché detta impossibilità perdura, la responsabilità del debitore per il ritardo nell’adempimento. Pertanto, in via generale, il debitore, cessata la suddetta impossibilità, deve sempre eseguire la prestazione, indipendentemente da un suo diverso interesse economico che può, eventualmente, far valere sotto il profilo dell’eccessiva onerosità sopravvenuta. 

Nel caso di specie, il factum principis limitando la libertà di movimento delle persone e vietando lo svolgimento di eventi e attività professionali e commerciali, tali provvedimenti come in parte disciplinato dal predetto articolo, possono dare luogo a: 

  1. sopravvenuta impossibilità definitiva di eseguire la prestazione; 
  2. sopravvenuta impossibilità temporanea di eseguire la prestazione; 
  3. sopravvenuta impossibilità di ricevere la prestazione (fattispecie non disciplinata dal codice civile, ma contemplata dalla giurisprudenza e, da ultimo, anche dalle misure urgenti varate dal Governo in materia di rimborsi di titoli di viaggio e pacchetti turistici; in base a tali misure sono divenute giuridicamente impossibili le prestazioni dovute, in relazione a contratti di trasporto aereo, ferroviario, marittimo o terrestre, in favore di soggetti sottoposti a quarantena, destinatari di un divieto di allontanamento, etc.); 
  4. sopravvenuta carenza di interesse a ricevere la prestazione. 

Per poter determinare l’impossibilità della prestazione, gli ordini o i divieti emanati dell’autorità devono essere: 

  1. del tutto estranei alla volontà dell’obbligato (Cass. Civ., n. 21973/07); 
  2. non ragionevolmente prevedibili, secondo la comune diligenza, all’atto dell’assunzione dell’obbligazione (Cass. Civ., n. 2059/2000). 

I citati provvedimenti sono stati adottati dalle autorità competenti a fronte di un’emergenza sanitaria grave, eccezionale e, previe le valutazioni del caso, imprevedibile. Sono, quindi, del tutto estranei alla volontà dei contraenti e la loro emanazione non avrebbe potuto essere prevista dalle parti al momento della conclusione del contratto.  

 

L’art. 1467 c.c.: gli “avvenimenti straordinari ed imprevedibili” 

L’impossibilità sopravvenuta va ben distinta dall’eccessiva onerosità sopravvenuta. Quest’ultima non impedisce la prestazione, ma la rende più “onerosa”, consentendo al debitore di chiedere la risoluzione del contratto o la riduzione della prestazione. 

L’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione, per poter determinare, ai sensi dell’art. 1467 c.c., la risoluzione del contratto richiede, tuttavia, due requisiti:  

  • (I)un intervenuto squilibrio tra le prestazioni, non previsto al momento della conclusione del contratto e  
  • (II)la riconducibilità della eccessiva onerosità ad “eventi straordinari ed imprevedibili”, che non rientrano nell’ambito della normale alea contrattuale. In particolare, il carattere della “straordinarietà” deve essere valutato in modo oggettivo, dovendosi qualificare in base alla frequenza dell’evento, alle dimensioni, all’intensità ecc.; l’“imprevedibilità” ha natura, invece, soggettiva, «facendo riferimento alla fenomenologia della conoscenza». 

Per configurare l’eccessiva onerosità sopravvenuta, dunque, è necessario che gli avvenimenti straordinari ed imprevedibili determinino un aggravio patrimoniale che alteri, sostanzialmente, l’originario rapporto di equivalenza, incidendo sul valore di una prestazione rispetto all’altra, ovvero facendo diminuire o cessare l’utilità della controprestazione. 

Va da sé, dunque, che la domanda di risoluzione di un contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione deve essere corredata dalla rigorosa prova del fatto la cui sopravvenienza abbia «determinato una sostanziale alterazione delle condizioni del negozio originariamente convenuto tra le parti e della riconducibilità di tale alterazione a circostanze assolutamente imprevedibili». 

Nei contratti a esecuzione continuata o periodica, ovvero differita, se la prestazione di una delle parti è ancora possibile, ma è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di eventi straordinari e imprevedibili, la parte che deve eseguire tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto, salvo che tale eccessiva onerosità non rientri nella sua normale alea (art. 1467, commi 1 e 2, c.c.). 

Il concetto di “eccessiva onerosità” non è definito dal legislatore ma, secondo la giurisprudenza e la dottrina, va valutato utilizzando criteri rigorosamente oggettivi e distinto dalla mera difficoltà di adempimento. 

In particolare, l’“eccessiva onerosità” rileva esclusivamente in quanto dovuta ad avvenimenti straordinari ed imprevedibili (tali sono sia i provvedimenti urgenti emanati dal Governo che l’emergenza sanitaria in sé) e nei limiti in cui imponga all’obbligato un sacrificio economico che eccede la normale alea del contratto (da valutarsi caso per caso). 

Può farsi il caso, ad esempio, di un produttore/fornitore che, per poter far fronte alle consegne, è costretto a sostituire i produttori di beni intermedi o di componenti, le cui fabbriche sono temporaneamente chiuse in quanto localizzate all’interno di una “Zona Rossa”, sostenendo un costo eccessivamente elevato. 

A differenza dell’impossibilità, l’eccessiva onerosità sopravvenuta non produce alcun effetto liberatorio automatico (e, quindi, non risolve di diritto il contratto), ma va accertata e la risoluzione dichiarata in giudizio. 

La parte cui è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto (art. 1467, comma 3, c.c.).  

 

Conclusioni e casi pratici 

Iconclusionequindi, in caso di impossibilità sopravvenuta della prestazione: 

  1. il debitore non è responsabile per il proprio inadempimento (art. 1218 c.c.); 
  2. la sua obbligazione si estingue (art. 1256 c.c.); 
  3. il contratto si risolve di diritto, senza bisogno di alcuna iniziativa di parte né di intervento del giudice (che sarà, tuttavia, necessario in caso di contestazioni; art. 1463 c.c.). 

Per effetto della risoluzione, nei contratti a prestazioni corrispettive, la parte liberata per sopravvenuta impossibilità della prestazione: 

  1. non può richiedere la controprestazione, e 
  2. deve restituire la prestazione eventualmente ricevuta (art. 1463 c.c.). 

In caso di mancato adempimento spontaneo, la parte contrattuale che vi abbia interesse dovrà agire in giudizio per fare accertare l’impossibilità della prestazione e chiedere la restituzione di quanto pagato. 

In base all’art. 1256 c.c., il debitore non è responsabile dei danni che la controparte possa subire per un ritardo nell’esecuzione della prestazione dovuto a un’oggettiva impossibilità temporanea. 

Il carattere definitivo o transitorio dell’impossibilità non è valutabile in maniera assoluta, ma va valutato caso per caso, in relazione alla natura e all’oggetto del contratto e agli interessi delle parti. 

Si prenda il caso, ad esempio, di un fornitore esterno che debba eseguire una consegna di merci in una “Zona Rossa” e vi sia impossibilitato a causa del divieto di accesso imposto dalle autorità. Ove il termine per la consegna non costituisca elemento essenziale del contratto e l’acquirente abbia ancora interesse a ricevere tali merci, il fornitore non potrà essere ritenuto responsabile del ritardo nella consegna, finché vige tale divieto. 

Il rapporto contrattuale entra, dunque, in uno stato di sospensione, che può risolversi in due diversi modi: 

  1. l’impossibilità viene meno (cessa lo stato di emergenza ed è nuovamente possibile accedere nel comune ed effettuarvi le consegne). In tal caso, il persistere della mancata consegna della merce diviene imputabile al fornitore e costituisce inadempimento; ovvero 
  2. l’impossibilità diventa definitiva, ossia perdura fino a quando viene meno l’interesse che la prestazione in concreto è diretta a realizzare (ad esempio, le merci in questione potrebbero non essere più utili o utilizzabili dopo un certo periodo di tempo). In tal caso, l’obbligazione si estingue con conseguente scioglimento del vincolo contrattuale (artt. 1256 e 1463 c.c.). 

In linea teorica è anche possibile, benché non previsto da alcuna previsione di legge, rifiutare la prestazione di un determinato contratto e attivare i rimedi restitutori (art. 1463 c.c.) quando l’interesse creditorio sia venuto meno per effetto della sopravvenuta oggettiva impossibilità di utilizzare la prestazione. 

Come chiarito dalla Corte di Cassazione, infatti, l’impossibilità di utilizzare la prestazione da parte del creditore, pur se non disciplinata in modo espresso dal legislatore, costituisce – analogamente all’impossibilità di esecuzione della prestazione da parte del debitore – una causa di estinzione dell’obbligazione (Cass. Civ. 26958/2007, 18047/2018, 8766/2019). 

In particolare, “l’impossibilità sopravvenuta della prestazione si ha non solo nel caso in cui sia divenuta impossibile l’esecuzione della prestazione del debitore, ma anche nel caso in cui sia divenuta impossibile l’utilizzazione della prestazione della controparte, quando tale impossibilità sia comunque non imputabile al creditore e il suo interesse a riceverla sia venuto meno, verificandosi in tal caso la sopravvenuta irrealizzabilità della finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto e la conseguente estinzione dell’obbligazione”. 

In virtù di tale principio, applicato anche dalle corti di merito (Trib. Firenze, 22 maggio 2019, n. 1581), il contratto potrebbe essere risolto anche quando la prestazione è in astratto ancora eseguibile, ma sia venuta meno la “possibilità che essa realizzi lo scopo dalle parti perseguito con la stipulazione del contratto” e, quindi, la “causa concreta” dello stesso. 

Avv. Andrea Leggieri