I provvedimenti governativi aventi ad oggetto la chiusura degli esercizi commerciali (al pari della contrazione delle attività commerciali ed economiche) avranno effetti giuridici inevitabili anche in relazione ai contratti di locazione degli immobili presso i quali l’attività deve essere esercitata.
Le esigenze da contemperare sono molteplici in quanto, se da un lato deve essere tutelato chi non può esercitare la propria attività economica, dall’altro dovrebbero essere tutelati i proprietari degli immobili laddove non percepiscano redditi che spesso rappresentano le uniche fonti di sostentamento di intere famiglie.
Giova precisare, da subito, che spesso, al contrario di quanto si potrebbe pensare la parte debole dei predetti rapporti è proprio il locatore che spesso rimane inerme dinanzi agli inadempimenti dei conduttori con garanzie pressoché inesistenti e tempi giudiziari biblici per il recupero degli immobili.
A ciò si aggiunga che del tutto inspiegabilmente alle locazioni commerciali non si applica nemmeno la disciplina di cui all’art.26 c.1 del Tuir che così enuncia: I redditi fondiari concorrono, indipendentemente dalla percezione, a formare il reddito complessivo dei soggetti che possiedono gli immobili a titolo di proprietà, enfiteusi, usufrutto o altro diritto reale, salvo quanto stabilito dall’articolo 30, per il periodo di imposta in cui si è verificato il possesso. I redditi derivanti da contratti di locazione di immobili ad uso abitativo, se non percepiti, non concorrono a formare il reddito (purché la mancata percezione sia comprovata dall’intimazione di sfratto per morosità o dall’ingiunzione di pagamento. Ai canoni non riscossi dal locatore nei periodi d’imposta di riferimento e percepiti in periodi d’imposta successivi si applica l’articolo 21 in relazione ai redditi di cui all’articolo 17, comma 1, lettera n-bis). Per le imposte versate sui canoni venuti a scadenza e non percepiti come da accertamento avvenuto nell’ambito del procedimento giurisdizionale di convalida di sfratto per morosità è riconosciuto un credito di imposta di pari ammontare.
Ne consegue che ad oggi i locatori di immobili ad uso commerciale potrebbero addirittura essere costretti a pagare imposte per canoni non percepiti.
Il Governo all’art 65 del DL 18 del 2020, ha previsto a favore dei soggetti esercenti attività d’impresa un credito d’imposta nella misura del 60 per cento dell’ammontare del canone di locazione, relativo al mese di marzo 2020, di immobili rientranti nella categoria catastale C/1 (negozi e botteghe).
Si tratta di un intervento che, seppur importante, non consente alle parti una utilità economica immediata e non consente alcuna tutela per il locatore per i casi di omesso pagamento del canone.
Quali sono le conseguenze di quanto sopra?
Si possono ipotizzare una serie di prospettazioni fattuali e giuridiche nessuna delle quali, tuttavia, potrebbe soddisfare appieno l’aspettativa del conduttore in relazione alla prosecuzione dell’attività, né del locatore di percepire un reddito per un investimento che spesso rappresenta il risultato di una vita lavorativa di sacrificio.
(i) Risoluzione per gravi motivi art. 27 l. 392/78
una prima possibilità è disciplinata dall’art. 27 della L. 392/78 in ragione del quale il conduttore per gravi motivi, può recedere dal contratto di locazione con un preavviso il cui termine è contrattualmente stabilito e che in genere è di 6 mesi.
Detta ipotesi, sebbene percorribile, non appare idonea in quanto in primo luogo comporterebbe, con ogni probabilità, la cessazione dell’attività commerciale ed in secondo luogo, salvo eventuali diversi accordi avrebbe efficacia al termine del preavviso.
(ii) Eccessiva onerosità sopravvenuta art. 1467 c.c.
altra ipotesi è quella di applicare al caso di specie la disciplina prevista per i casi di “eccessiva onerosità sopravvenuta” regolata dall’art. 1467 cc. in ragione del quale, nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, ovvero differita, se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di eventi straordinari e imprevedibili ma è ancora possibile, la parte che deve eseguire tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto, ovvero chiedere la riduzione della prestazione.
Il concetto di “eccessiva onerosità” non è definito dal legislatore ma, secondo la giurisprudenza e la dottrina, va valutato nei limiti in cui imponga all’obbligato un sacrificio economico che eccede la normale alea del contratto, da valutarsi caso per caso, eventualmente comparando il valore delle prestazioni al momento in cui sono sorte ed a quello in cui devono essere eseguite.
Tale prospettazione potrebbe determinare una pretesa di risoluzione del contratto da parte del conduttore (evitando il preavviso di 6 mesi per gravi motivi), sempre che il locatore, di fronte alla richiesta risoluzione, non “offra di modificare equamente le condizioni del contratto.”
Anche in questo caso, tuttavia, va considerata: la non definitività della situazione di crisi che determina l’eccessiva onerosità ed il fatto che vi è il rischio di risoluzione del contratto e, pertanto, di cessazione dell’impresa;
(iii) impossibilità parziale ex art. 1258 c.c.
altra ipotesi è quella disciplinata dall’art. 1258 c.c ai sensi del quale “se la prestazione è divenuta impossibile solo in parte, il debitore si libera dall’obbligazione eseguendo la prestazione per la parte che è rimasta possibile”.
In questo caso il debitore (conduttore) si libererebbe dall’obbligazione eseguendo la prestazione per la parte che è rimasta possibile.
Anche in questo caso deve considerarsi che l’impossibilità parziale, allo stato, non è definitiva con tutto ciò che ne consegue.
(iv) inadempimento ex art. 1218 bilanciamento con i principi di correttezza (1175 c.c. e buona fede art. 1375 c.c.
Lo scenario, che maggiormente appare prevedibile a seguito del provvedimento di chiusura delle attività commerciali sarà quello dell’inadempimento da parte dei conduttori delle proprie obbligazioni.
In via generica, la legge prevede i criteri di distribuzione del rischio del mancato raggiungimento del risultato utile per il creditore attraverso gli artt. 1176 e 1218 c.c., sebbene sia il caso di rimarcare con decisione che punto fermo è rappresentato dal fatto che il debitore non può rispondere per un fatto che sia ascrivibile ai terzi, alla forza maggiore o al caso fortuito, cioè eventi imprevisti ed imprevedibili.
Difatti, l’art. 1218, norma cardine del nostro ordinamento in tema di responsabilità contrattuale, è imperniata sulla prova afferente alla non imputabilità al debitore della causa che importa l’impossibilità sopravvenuta della prestazione. Detto precetto deve tuttavia essere necessariamente interpretato conformemente al dettato di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., secondo cui i contraenti debbono comportarsi secondo regole di correttezza e buona fede nell’esecuzione del rapporto.
In altre parole, qualora l’obbligato avesse in buona fede cooperato per l’adempimento della prestazione, ma tra la sua condotta e la mancata realizzazione del risultato previsto dai soggetti del rapporto obbligatorio s’inserisca una serie causale del tutto autonoma – costituita da caso fortuito o forza maggiore – e vi sia dunque impossibilità per il debitore di prevedere tali eventi (o, comunque, di poterle validamente contrastare), quest’ultimo sarà liberato dalla prestazione.
E’ appena il caso di rilevare che, tra le esimenti invocabili per la citata impossibilità sopravvenuta della prestazione sussiste indubbiamente il cd “factum principis”, ovvero un atto della pubblica autorità (emanato cioè da organi dotati di potere normativo che si impongono sull’autonomia privata) che renda impossibile la prestazione a prescindere dalla volontà del debitore.
In sintesi: il debitore non è tenuto alla prestazione nei limiti di quanto si possa dal medesimo pretendere, alla stregua dei richiamati canoni di correttezza e buona fede, specialmente se il suo inadempimento sia conseguenza dei provvedimenti adottati dalla pubblica autorità per far arginare la diffusione di un virus.
impossibilità definitiva e impossibilità temporanea ex art. 1256
più nello specifico ai sensi dell’art. 1256 qualora sopraggiungano fattori che rendano impossibile per il debitore far fronte alla prestazione e che non siano ad esso in alcun modo imputabili, ne conseguirà senza alcun dubbio un effetto estintivo del rapporto contrattuale.
Concentrandoci sui contratti conclusi per condurre in locazione dei locali adibiti ad uso commerciale, come sopra accennato, all’ipotesi di definitiva impossibilità sopravvenuta della prestazione per l’adempimento della prestazione che sia totalmente slegata da fatto colposo dell’obbligato, il codice civile ne fa discendere l’estinzione del relativo negozio giuridico.
In ipotesi di temporanea impossibilità sopravvenuta della prestazione, il codice civile si limita a sottolineare che il vincolo obbligatorio permane fintanto che il creditore abbia interesse a conseguire la prestazione, con ciò onerando il debitore ad adempiere la propria prestazione ed esonerandolo per il solo ritardo.
Dunque, il debitore sarà tenuto ad eseguire la prestazione quando e se la causa dell’impossibilità dovesse cessare, indipendentemente da un suo diverso interesse economico che, eventualmente, potrebbe far valere sotto il diverso profilo della sua eccessiva onerosità.
L‘art. 91 del DL 18/2020 , introduce una disposizione che, evidentemente nell’intenzione del legislatore, è diretta a considerare le conseguenze di un inadempimento qualora le stesse derivino dal “… rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto …” precisando che tale situazione “ … è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 (responsabilità del debitore) e 1223 (risarcimento del danno) c.c. …” e ciò in relazione a “… eventuali decadenze o penali connesse a ritardi o omessi adempimenti.”.
A ben vedere, tuttavia, tale disposizione ha un mero ed esclusivo valore rafforzativo e confermativo, delle disposizioni dell’ordinamento che lo stesso art. 1218 richiama direttamente.
Si tratta proprio delle disposizioni di cui agli artt. 1256 c.c. (impossibilità definitiva o temporanea) e 1258 c.c. (impossibilità parziale) che abbiamo considerato ai precedenti punti 4 e 5 e che determinano le conseguenze tutte lì esposte. Ciò sia in relazione all’argomento che qui ci occupa relativo al pagamento del canone, sia in ordine a tutte le diverse e variegate possibilità di “inadempimento” che derivino dal rispetto delle disposizioni limitative che l’emergenza sanitaria ha imposto.
In conclusione, non può configurarsi né sostenersi il diritto del conduttore ad un’automatica riduzione del canone.
Il conduttore dovrà:
a. chiedere, per le vie ordinarie, la riduzione del canone quantomeno per il periodo di crisi e concordare ciò in via amichevole e transattiva con il locatore;
in caso di accordo dovrà essere redatta apposita scrittura privata di riduzione del canone che è soggetta a registrazione
b. nel caso di mancato accordo (mantenendo il pagamento del canone vigente ad evitare eccezioni di risoluzione del contratto), il conduttore potrà convocare lo stesso in mediazione. Trattandosi di una possibile controversia di tipo locativo, infatti, prima dell’eventuale giudizio è obbligatorio esperire tale procedimento come previsto dal D.Lvo 28/10;
c. nel caso di fallimento della mediazione, non rimane che la via giudiziale sostenendo una delle ipotesi formulate in precedenza quale quella della impossibilità parziale sopravvenuta o le altre indicate.
Si auspica, in ogni caso, un ulteriore intervento legislativo che abbia ad oggetto un lasso di tempo inevitabilmente più lungo rispetto al solo mese di marzo e che contemperi anche le esigenze dei locatori.