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Insultare in video chat o attraverso un messaggio inviato in una chat di gruppo? Non è reato 

Una recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione la n. 10905 del 31.3.2020 ci offre lo spunto per trattare un argomento purtroppo di grande attualità. 

Non incorre nel rischio di una sanzione penale chi insulta l’interlocutore in una video chat, anche se alla presenza di più persone. Non scatta infatti il reato di diffamazione, dal momento che la persona offesa è presente, ma si rientra nella fattispecie dell’ingiuria che però è stata depenalizzata nel 2016. 

 

Cosa fare se una persona inveisce contro un’altra in una chat davanti ad altri soggetti? Si può denunciare? 

In primo luogo occorre fare una precisazione di tipo tecnico giuridico 

Differenza tra ingiuria e diffamazione 

l’elemento distintivo tra ingiuria e diffamazione è costituito dal fatto che nell’ingiuria la comunicazione, con qualsiasi mezzo realizzata, è diretta all’offeso, mentre nella diffamazione l’offeso resta estraneo alla comunicazione offensiva intercorsa con più persone e non è posto in condizione di interloquire con l’offensore (Sez. 5, n. 10313 del 17/01/2019, Vicaretti, Rv. 276502). 

Per dirla con gergo comune, la diffamazione è il comportamento di chi parla male alle spalle degli altri mentre l’ingiuria è l’insulto, la parolaccia, l’offesa indirizzata direttamente a un soggetto con cui si sta parlando. 

La differenza tra ingiuria e diffamazione non sta quindi nel numero delle persone presenti nel momento in cui vengono proferite le offese, ma nel soggetto con cui il responsabile discute: se questi dovesse essere la vittima, si parlerebbe di ingiuria; se invece dovesse trattarsi di altre persone si tratterebbe di diffamazione.  

La presenza delle persone rappresenta, quindi, una circostanza aggravante nel caso di ingiuria. 

Ma la differenza tra ingiuria e diffamazione è anche un’altra. L’ingiuria non è un reato(ai sensi del Decreto Legislativo 15 gennaio 2016, n. 7, articolo 1, comma 1, lettera C), è stata depenalizzata e rappresenta soltanto un illecito civile a fronte del quale è possibile tutt’al più chiedere il risarcimento dei danni entro cinque anni dal fatto. Per farlo bisogna però azionare una causa civile, anticipare i costi e, soprattutto, fornire la prova dei danni. Danni che non possono essere presunti nel solo fatto dell’offesa. Insomma, bisogna dimostrare la lesione al proprio onore. 

All’esito del giudizio di risarcimento, poi, il giudice condanna il colpevole a una sanzione amministrativa da pagare allo Stato. 

La diffamazioneal contrario è un reato 

Questo significa che la vittima può presentare una querela entro tre mesi dal fatto; nello stesso processo penale potrà anche chiedere i danni costituendosi parte civile (in quel caso il giudice accorda una provvisionale con onere per la parte di agire in via civile per l’esatta quantificazione degli importi dovuti). Se la diffamazione avviene via internet, scatta l’aggravante. 

Altro aspetto da non sottovalutare è la prova. Nel processo penale, la vittima è testimone; nel processo civile no. Quindi in quest’ultimo caso bisognerà procurarsi la testimonianza di un terzo o altra prova (ad esempio fotografica). 

Offese su WhatsApp o su qualsiasi altra piattaforma similare: è ingiuria o diffamazione? 

Alla luce di ciò possiamo ora rispondere al quesito da cui siamo partiti. Ebbene, le offese su WhatsApp o piattaforma similare possono integrare sia l’ingiuria che la diffamazione. Tutto dipende da come e quando è avvenuto l’illecito.  

Se, difatti, le offese sono state proferite nell’ambito di una discussione tra l’aggressore e la vittima – seppur alla presenza degli altri iscritti alla chat – si deve parlare di ingiuria e, pertanto, è necessario agire in sede civile. 

Se, viceversa, gli insulti sono avvenuti quando la vittima ora assente dalla chat e non collegata, allora si parlerà di diffamazione in quanto i soggetti a cui sono indirizzate le frasi offensive dell’altrui reputazione sono terzi. Come anticipato, però, è necessario che, alla chat, siano iscritte almeno altre due persone oltre al colpevole e alla vittima. In tale ipotesi dunque si può procedere alla querela presso i Carabinieri, la polizia o la Procura della Repubblica. 

Screenshot della chat come prova della diffamazione o ingiuria 

Ormai è sempre più nutrito il numero di sentenze che ammettono lo screenshot della chat come prova dell’altrui illecito. 

 Nel linguaggio informatico lo screenshot è un processo che consente di salvare sotto forma di immagini ciò che viene visualizzato sullo schermo di un computer o di un telefonino. 

Sul valore probatorio dello screenshot che si è recentemente espressa la Cassazione, con la sentenza n. 8736/2018. 

I giudici della Cassazione hanno precisato che ” i dati di carattere informatico contenuti in un computer rientrano tra le prove documentali e per l’estrazione di questi dati non occorre alcuna particolare garanzia; di conseguenza ogni documento acquisito liberamente ha valore di prova, anche se privo di certificazione, sarà poi il giudice a valutarne liberamente l’attendibilità.” 

La Corte di Cassazione ha ritenuto, in sede penale, che lo screenshot un documento informatico valido come prova documentale e riconducibile alla categoria di cui all’art. 234 c.p.p. di conseguenza per acquisire i relativi dati è sufficiente una operazione meccanica che non modifichi il contenuto dei dati  

In sede civile, per rendere ancora più attendibile la rappresentazione fotografica si può chiedere – in sede civile – l’interrogatorio formale del responsabile. Responsabile che potrebbe disconoscere il documento, in quanto mera rappresentazione meccanica del fatto, ma che, a tal fine, dovrebbe procurarsi un valido motivo per insinuare la non genuinità dello screenshot. 

La contestazione peraltro non impedisce al giudice di accertare la conformità all’originale anche mediante altri mezzi di prova, comprese le presunzioni. 

Inserimento in una chat WhatsApp senza autorizzazioni 

È in ultimo il caso di ricordare che non è possibile inserire una persona in una chat privata senza l’autorizzazione di questa. Si tratterebbe infatti di illecito trattamento dei dati personali che la legge sulla privacy non consente. Difatti, l’inclusione in un gruppo WhatsApp implica anche la diffusione del numero di telefono del soggetto in questione che, come noto, è un dato personale tutelato dalla normativa. 

Esiste una norma che vieta l’inserimento di una persona in un gruppo Whatsapp senza il suo consenso. Si tratta dell’art. 167, capo II – Illeciti penali – intitolato “Trattamento illecito di dati” del Dlgs n. 196/2003 “Codice in materia di protezione dei dati personali” che così dispone: 

  •  Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarne per se’ o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli articoli 18, 19, 23, 123, 126 e 130, ovvero in applicazione dell’articolo 129, e’ punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da sei a diciotto mesi o, se il fatto consiste nella comunicazione o diffusione, con la reclusione da sei a ventiquattro mesi; 
  • Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarne per se’ o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli articoli 17, 20, 21, 22, commi 8 e 11, 25, 26, 27 e 45, e’ punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da uno a tre anni. 

In questo senso si è espressa anche la Suprema corte di cassazione sez. III Penale, sentenza 17 febbraio – 1° giugno 2011, n. 21839.